“Furore” di John Steinbeck, recensione di Antonella Bellino

Nelle difficoltà e le traversie dei giorni che portano la famiglia Joad in California percorrendo la famosa Route 66, con mezzi improbabili e denaro insufficiente, a dettare il ritmo di tutto è la fame. Con la fame non esiste possibilità di scelta, né ci sono ragionamenti da fare: mangiare equivale a vivere. Ed è la fame a mettere a braccetto povertà e cattiveria: “Il confine tra fame e rabbia è sottile”.


Il racconto della famiglia Joad che affronta, come tantissimi altri dell’East statunitense nella fine anni ‘20 del secolo scorso, un viaggio della speranza per sopravvivere e ricostruire una vita su altre basi. La necessità di reinventarsi una vita e le considerazioni che ne scaturiscono rendono questa storia straordinariamente attuale.

Il sostentamento per vivere dei prodotti della propria terra è diventato impossibile. Alle incognite proprie della coltivazione dei campi - un suolo impoverito, il meteo avverso - si aggiunge la trasformazione del modo di coltivare e di produrre: l’avvento dei trattori, le monocolture. Finisce per molti la possibilità di vivere grazie ai frutti della propria terra e comincia, per pochi, lo sfruttamento della terra per profitto e accumulo. Così il trattore, invece che strumento per supportare le fatiche umane, si trasforma nell’occasione, per i più ricchi, di sottrarre ai più poveri i loro beni. Il West, la California, si trasforma così per migliaia di americani, nella nuova terra promessa. Ma si rivelerà presto una truffa: “Uno ha tanta libertà quanta se ne può comprare”

Nelle difficoltà e le traversie dei giorni che portano la famiglia Joad in California percorrendo la famosa Route 66, con mezzi improbabili e denaro insufficiente, a dettare il ritmo di tutto è la fame. Con la fame non esiste possibilità di scelta, né ci sono ragionamenti da fare: mangiare equivale a vivere. Ed è la fame a mettere a braccetto povertà e cattiveria: “Il confine tra fame e rabbia è sottile”.

La storia di questo viaggio intesse le vicende creando pian piano la trama e gli orditi del modo in cui si forma il giudizio dell’uomo sull’altro uomo, del modo in cui la giustizia finisce per vestirsi con gli abiti di una chimera. L’agognata giustizia che ciascuno porta in cuore viene tradita, come sempre, dai pregiudizi e dall’avidità, dallo sfruttamento dei pochi sui molti, dall’incoercibile spinta verso la felicità personale, a qualsiasi costo e qualsiasi cosa significhi per ciascuno felicità.

“A furia di mendicare, a furia di umiliarsi, presero a covare una rabbia disperata. E nelle piccole città la compassione per gli uomini fradici si trasformò in rabbia, e la rabbia contro gli affamati si trasformò in paura di loro”.
I protagonisti del racconto sono persone semplici e così è anche il linguaggio del libro: non ci sono paroloni. Ma le considerazioni, la descrizione dei fatti e dei moti d’animo dei personaggi lasciano emergere con lampante chiarezza tutti i nodi delle dinamiche che governano il grande mondo dell’umanità e la sua ambigua complessità.

Durante il viaggio i personaggi della storia crescono o muoiono, evolvono o falliscono, e diventano presto un pezzo della nostra memoria, come amici lontani di cui sappiamo abbastanza. Ed è forse nella figura della mamma della famiglia Joad - chiamata da tutti ‘Ma - che si incontra la forza, la determinazione, la volontà incorruttibile di farcela, di permettere a ciascuno di farcela. Nelle difficoltà drammatiche, sostenute dalla sola speranza, è ‘Ma che riesce a guidare le scelte migliori per tutti, fino a soppiantare il ruolo sino ad allora tenuto da ‘Pa: “Che strano! La donna si carica sulle spalle la famiglia. La donna dice dobbiamo fare questo, dobbiamo fare quello. E io manco m’arrabbio”. Un modo semplice di raccontare la potenza della natura femminile, capace di rinnovare la sua forza con la consapevolezza acquisita grazie all’esperienza: “per l’uomo la vita è fatta a salti: se nasce tuo figlio e muore tuo padre, è un salto; se ti compri la terra e ti perdi la terra, per l’uomo è un salto.

Per la donna invece è tutto come un fiume, che ogni tanto c’è un mulinello, ogni tanto c’è una secca, ma l’acqua continua a scorrere, va sempre dritta per la sua strada. Per la donna è così che è fatta la vita. la gente non muore mai fino in fondo. La gente continua come il fiume: magari cambia un po’ ma non finisce mai”.
‘Ma è la madre di Tom, un personaggio chiave di Furore. Tom è appena uscito dal carcere; del carcere ha afferrato con chiarezza la brutale inutilità, ciononostante dell’inutile esperienza sa far tesoro: ora riesce ad ascoltare con attenzione le cose veramente interessanti, ora coglie ciò che è importante capire, e ne sa anche parlare: “Lo sai a chi pensavo? a Casy! Quello parlava un sacco. Io mi seccavo a sentirlo, ma ora ho pensato alla roba che diceva, e me la ricordo… dice che una volta era andato nel deserto a cercare la sua anima e aveva scoperto che lui non ce l’aveva un’anima tutta sua. Dice che lui aveva scoperto di avere solo un pezzetto di un’anima grande e grossa. Dice che il deserto non andava bene, perché il suo pezzetto di anima non serviva a niente se non stava con tutti gli altri pezzetti, e non faceva un’anima intera. È strano che me lo ricordo. Mi pareva che manco lo stavo a sentire. Ma ora so che uno se sta da solo non serve a niente”.

È impossibile riportare tutti gli spaccati illuminanti di un libro come “Furore”, se non scrivendone altrettante pagine a commento… Ne consiglio vivamente la versione integrale. È un testo magnifico per capire cosa vuol dire saper passare dalla competizione per la vita alla collaborazione per la vita. E permette di riflettere su cosa noi uomini stiamo costruendo e come lo stiamo facendo: è un libro adatto a sviluppare potentissimi anticorpi cognitivi.

 

Furore

John Steinbeck

 

Recensione a cura di Antonella Bellino

24 marzo 2020